Il lato oscuro di Google

Di Om e Leo, pubblicato su Voce Libertaria di marzo 08

Apro
la pagina di Google, digito "voce libertaria", clicco "cerca" ed in una
frazione di secondo mi appaiono 4’623 risultati. Sbalorditivo pensando
che il giornale che ospita questo articoletto, non ha nemmeno un sito
web.

Il punto G
Google è il motore di
ricerca più conosciuto ed utilizzato nel mondo e rappresenta, per quasi
tutti noi, il punto di accesso con internet. Nonostante la continua
crescita di Google esso non riesce ad indicizzare tutto quello che è
realmente presente nel web, la nostra ricerca è quindi circoscritta
solo ad un numero limitato di fonti. Le informazioni presenti nella
rete, per arrivare fino a noi, vengono trovate (e quindi selezionate
attraverso dei filtri) dal complicato e segreto algoritmo chiamato
PageRank che organizza la ricerca in Google. Si stima che il 70% di
tutte le ricerche su internet passino da li. Per rendere più chiaro
l’agire di questo algoritmo possiamo immaginarcelo come fosse il
bibliotecario che, ad una mia richiesta, attinge da un’amplissima
biblioteca i testi che ritiene più opportuni e me li presenta
nell’ordine che ritiene migliore. È per questo che se provo a cercare
sulla pagina cinese di Google "Tien A Men" i risultati che mi
appariranno saranno diametralmente diversi da quelli che troverei se
facessi la stessa richiesta (in gergo una query) ad altre pagine di
Google nel mondo. In pratica il "bibliotecario" cinese è stato istruito
per non consegnarmi le informazioni che il governo ritiene "scomode".

Dietro la sobrietà dell’interfaccia
L’accesso
diretto, senza mediazione, alla mole d’informazione presente sul web è
assolutamente impossibile, anche solo in via ipotetica: sarebbe come
sostenere di poter sfogliare il Web "a mano". Per questo esistono i
motori di ricerca, per filtrare la complessità della rete e fungere tra
noi e l’informazione, risolvendo delle ricerche.
Tuttavia, anche
se i database di Google sono enormi, non potranno mai essere completi e
totali, indipendentemente da quanto tempo, denaro e tecnologie si
investano. È assurdo pensare di poter conoscere, o più banalmente
copiare e catalogare, tutto Internet: sarebbe come pretendere di
conoscere l’interezza di un mondo vivo e in costante mutamento.
Dobbiamo quindi tenere sempre ben presente che i risultati delle nostre
ricerche sono ben lungi dall’essere "oggettivi".
Le ricerche di
Google sono il risultato di una delega: uno strumento in grado di
offrirci la possibilità di trovare "qualcosa" di utile e interessante
tra le molte risorse contenute nel suo patrimonio, che viene spacciato
per la "totalità" del Web. Vengono però completamente sottaciuti i
limiti di queste luccicanti offerte: ciò che è assente dal patrimonio,
o ciò che è presente solo in parte e, soprattutto, tutto quello che è
stato "scartato".
Viene quindi evidenziato uno spinoso problema
etico e politico sulla gestione delle informazioni: quale soggetto può
garantire la correttezza di un’azienda che, per quanto "buona", ha come
obiettivo primario il profitto?

Profilazione: Google non è gratis!
Google
è un campione nella schedatura dei dati dei suoi utenti. Ed è proprio
di questo tema che alcuni militanti del gruppo di ricerca
"ippolita.net" hanno discusso lo scorso novembre, nel corso della
serata "The Dark side of Google" organizzata da Indymedia nell’ambito del LIP (il Laboratorio d’Informatica Popolare) al CSOA il Molino di Lugano.
La
profilazione (e la raccolta dati in generale) è il modo con cui Google,
colosso con sede in California, quotato in borsa per svariati miliardi
di dollari, fa i soldi. Google ci attira nelle sue pagine offrendo
servizi utilissimi, altamente funzionali, veloci ed accattivanti.
Ricerca, soprattutto ma non solo, anche caselle e-mail con spazio
praticamente illimitato, mappe dettagliatissime, gestione dei feed,
video (Youtube è stato recentemente comperato da Google), la
piattaforma Blogspot e tanto altro. Tutti questi servizi non sono che
delle "esche" per attirarci fra le maglie della grande G, ogni nostra
interazione con tutte queste opportunità apparentemente "gratuite"
viene dettagliatamente monitorata e schedata.
Google non è gratis
quindi, i suoi servizi non li paghiamo con il denaro, ma con due altri
tipi di moneta: da una parte cediamo informazioni su noi stessi, i
nostri gusti, i nostri interessi e i nostri desideri e dall’altra
invece paghiamo con "istanti di attenzione" che Google rivende poi ai
suoi inserzionisti.

I biscotti avvelenati dell’industria dei meta-dati
Al
nostro primo accesso in Google, il sistema salva automaticamente nel
nostro computer un file (detto cookies, o biscotto) contenente un
numero identificativo univoco che gli permette di far coincidere tutto
il traffico proveniente da quel computer con una singola persona.
Questo permette a Google di profilare in maniera incredibilmente
dettagliata la nostra attività online. Non solo le parole che cerchiamo
ma anche, se usiamo Gmail o se qualcuno fra i nostri contatti lo usa,
quali sono i nostri contatti e le nostre conversazioni, se usiamo i
servizi maps o heart quali sono i nostri luoghi d’interesse, se usiamo
Google news è facile capire quali giornali leggiamo, con Youtube
possono capire quali video ci piacciono e che tipo di musica
preferiamo. Utilizzando Google docs (una suite di programmi online
simile ad Office) diamo in pasto all’azienda i documenti che scriviamo
e leggiamo, scaricando Google desktop invece permettiamo di scansionare
ed archiviare tutto quanto è presente nel nostro computer.
Anche
visitando siti che, pur non appartenendo a Google, presentano le sue
pubblicità o il suo servizio di statistica, forniamo dati. Tutta questa
curiosità non è segreto, fra le norme che dobbiamo accettare prima di
utilizzare questi servizi, è esplicitata l’indicazione che "Google
raccoglie dati personali (…) Possiamo combinare le informazioni
fornite con informazioni provenienti da altri servizi di Google o
fornite da terzi allo scopo di acquisire una maggiore conoscenza
dell’utente.
"

Che se ne fa Google di tutti questi dati?
Per
ora questa immensa mole di dati raccolti viene usata principalmente per
proporci pubblicità mirate chiamate "AdSens". Sono quelle piccole
porzioni di testo che appaiono accanto ai risultati della ricerca o in
certi siti web e che ci propongono di acquistare proprio quello che
stavamo cercando. È grazie all’analisi dei nostri dati e delle nostre
incursioni online che Google ci può fornire pubblicità così pertinenti.
Google si occupa di mettere in contatto l’inserzionista con milioni di
utenti potenzialmente interessati al prodotto pubblicizzato. Ma non si
limita alla pubblicità, il tutto è usato anche per ricerche di mercato
e per scopi statistici non meglio precisati. Queste informazioni
rimangono stoccate in eterno nei server di Google a disposizione di
stati, polizie e corporation. Pronti ad essere venduti o ceduti a terzi
per scopi che è fin troppo facile ipotizzare. Al contrario delle
schedature politiche elvetiche, apparentemente smantellate negli anni
scorsi, che erano organizzate in archivi pachidermici e poco usabili,
le informazioni di Google sono perfettamente accessibili con una
semplice ricerca in pochi attimi. In attesa del dittatore di turno che
prenderà il potere e deciderà di sterminare tutti coloro che, per
esempio, amano i gatti e si chiederà: "perché non partire dal database di Google per stilare le mie liste?".

La tendina della doccia
Pensi
di non aver nulla da nascondere? Certo, ma allora perché quando fai la
doccia tiri la tenda? La privacy in rete è un diritto che deve essere
garantito a tutti, bisognerebbe iniziare a scardinare l’assunto per cui
da un maggior controllo si ottenga una maggior sicurezza. Uno stile
critico e sobrio rispetto alla tecnologia è assolutamente d’obbligo.
Quando qualcuno ci offre sul web qualcosa di gratuito dovremmo
insospettirci. Quando assistiamo ad una tale concentrazione di
informazioni nelle mani di un unico attore è il momento di provare a
fare qualcosa. Anche la sola presenza di una banca dati delle
dimensioni di quella di Google, rappresenta un rischio per le libertà
civili e per la privacy individuale. È per questo che sono stati
pensati dei sistemi di "autodifesa" che hanno il sicuro beneficio di
aumentare la nostra consapevolezza online. Per esempio il plugin per
Firefox "TrackMeNot" che genera tutta una serie di ricerche casuali su
Google per cercare di "intorbidire" il nostro profilo, oppure
“Scookies”, progetto di acari italiani che serve a "scambiare" i
cookies, i file che ci identificano rispetto a Google, in modo da
generare caos e contaminare la purezza dei profili raccolti.

In buona compagnia
Ma
non solo Google ha questa passione per i nostri dati personali: il
cosiddetto "web 2.0" che comprende tutti i servizi che ospitano
contenuti prodotti dagli utenti (Myspace, Facebook, Flikers, eccetera)
seguono le stesse logiche. Una soluzione almeno parziale c’è: vale la
pena affidare i propri materiali a progetti che garantiscono una certa
etica, come il network di inventati/autistici che fa dell’anonimato e
della "non conservazione di dati", uno dei suoi punti di forza.

ll capitalismo morbido di Google
"Don’t
be evil" (non essere cattivo) è il motto che Google ha fatto proprio.
Grazie ad un’oculata gestione della propria immagine, i due ideatori di
Google hanno creato un gigante all’apparenza buono. Gli uffici di
Google sono un luogo "diverso" dalle altre postazioni di lavoro, un
luogo nuovo, il posto ideale per le menti migliori.
Lavorare per
Google è il sogno di qualsiasi informatico. Un elenco ufficioso delle
amenità che le sedi di questo colosso nascondono è d’obbligo: palestre
aziendali, piscine, cibo gratis nelle mense/ristoranti aziendali, drink
e snack gratis ovunque (basta con la schiavitù delle macchinette a
pagamento! Google paga tutto!); campi da pallavolo, basket e spazi
all’aria aperta per fare sport, monopattini a motore per spostarsi tra
i vari edifici. Ma queste sono solo inezie, rispetto all’asilo e alle
scuole elementari aziendali per i bimbi dei dipendenti, completamente
gratuiti, o allo studio dentistico, ovvero un camion trasformato in
studio dentistico mobile: in un Paese come gli USA, in cui l’istruzione
e la sanità sono un lusso per pochi, si tratta di opportunità ancor più
incredibile. La filosofia è quella del "be Google" (sii Google) dove il
senso di appartenenza all’azienda è ragione di orgoglio da rivendicare.

Si tratta di una pratica avanzata di capitalismo morbido
dell’abbondanza: una strategia di controllo biopolitico in senso
stretto, che propina ambienti di lavoro confortevoli, pacche sulle
spalle e gratificazioni ai dipendenti. I lavoratori, soddisfatti e
lusingati, sono contenti di farsi sfruttare e diventano i maggiori
sostenitori dell’azienda, fieri di propagandare un’immagine vincente e
"buona".

 
  

Il
libro di Ippolita, "Luci e ombre di Google", edito dalla Feltrinelli
che approfondisce questo e molti altri temi è scaricabile gratuitamente
in pdf grazie ad una licenza copyleft dal loro sito.

 
La registrazione audio della presentazione tenuta al CSOA il Molino è invece disponibile sul sito del Laboratorio d’Informatica Popolare