Ieri sera ho visto il primo film a Castellinaria: Tutta colpa di Giuda. La storia si dipana all’interno di una prigione e attorno alla scelta dei personaggi per la rappresentazione di un musical teatrale che rappresenti la Passione, dove nessuno vuole fare Giuda, considerato l’infame per eccellenza. L’attrice principale, che nel frattempo è in fase di rottura con il compagno, si trova così a dover risolvere questo problema assieme ai detenuti del carcere – da notare che si tratta di prigionieri veri e non attori, punto importante per la comprensione e l’apprezzamento del film -, venendo così a contatto con una realtà spesso dimenticata o, peggio ancora, nascosta. Un film che tocca diversi piani importanti: passando dalla vita in carcere all’amore dell’attrice, tornando sui sentimenti dei detenuti per poi lanciare un’occhiata alla protesta contro il sistema carcerario, tutto questo con gli spettri della religione e del carcere che aleggiano punzecchianti. Sono stato colpito dal modo con cui il regista, Davide Ferrari, lavora con le immagini: dentro e fuori il carcere i colori cambiano in maniera molto appariscente e la luce aumenta – anche se questa ha una presenza particolare nel cortile della prigione. Tanti anche gli stimoli che il film italiano mi ha offerto, per esempio quando il direttore dell’istituto penitenziaro di Torino dice alla protagonista – cito a memoria: "Il carcere così non serve a niente, è utile solo a quelli che stanno di là per tracciare una linea. Per nascondere la monnezza sotto al tappeto." Irene Markovic risponde interessata: "Qual’è il problema allora?" E l’altro risponde con una lapidario: "U’ tappetu". Anche il problema dell’assenza di Giuda fa riflettere i detenuti, Irene Markovic e gli altri personaggi: ci vuole davvero il peggio, rappresentato dal carcere, dal delitto, dalla croce, per avere il meglio, cioé la vita? Domanda a cui non posso dar risposta, ma che è bene, trovo, ci si ponga. Per finire anche la colonna sonora riesce a coinvolgere lo/la spettat* con ritmi veloci e moderni e con testi che non possono far’ altro che creare domande, su tante cose.
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